Sulle bancarelle lungo le strade di Bonn, nel 1988 si
trovava di tutto.
Bonn era ancora la capitale della Germania Federale,
piccola, ordinata, ma cosmopolita e piena di giovani. Uno di questi, io, girava
rovistando tra le centinaia di musicassette, dato che costavano pochissimo.
Sperimentavo e scoprivo musica. In ritardo, molto spesso. Anche in questo caso.
Comprai a quattro marchi un album dei Creedence Clearwater Revival, vecchio di
una quindicina d’anni, e un’altro ancora più vecchio, del 1967, quando ancora
non ero nato. Aveva la copertina bianca, con al centro il disegno di una banana
matura. In basso a sinistra, il nome della band: The Velvet Underground &
Nico. E poi la firma dell’autore della banana, che io credetti fosse anche il
titolo dell’album: Andy Warhol.
Fu così che conobbi Lou Reed.
Lou in quell’album parlava soprattutto di droga. A
cominciare da Heroin. Ascoltai quella
canzone senza suggestioni, sapevo di cosa si trattava, anche se non per
esperienza diretta. I did not walk on the wild side. Avevo visto una
generazione, al mio paese, quelli che avevano una decina d’anni più di me,
spazzata via dall’Ero. Avevo visto gli scoppiati sulle panchine. Riversi, forse
vivi, forse no. A tanta gente non importava (l’era lì, che ‘l pareva nisün, disse Iannacci dell’uomo con le
scarpe da tennis). Li avevo visti fare l’autostop con i denti rotti, avevo visto
le madri piangere ai funerali. Questo per dire che non avevo dubbi su cosa
fosse quella roba. Eppure Lou la cantava.
Senza remore, come nudo, parlava dell’ago che entra nella vena, della pace vuota
che seguiva (and all you girls with your
sweet talk, you can all go take a walk) della fine che lo aspettava (be the death of me),e che però non arrivò.
Heroin è un capolavoro. Lou poi parlava dello spacciatore, waiting for my man, questa figura che domina e che detta il tempo
della vita del tossico (first thing you
learn is that you always gotta wait, chiaro e semplice, per me è grande letteratura
americana). Come poteva quel mondo essermi così estraneo mentre allo stesso
tempo mi abbeveravo a quelle canzoni? La distorsione di The Black Angel Death
Song (forse il miglior titolo di sempre di una canzone rock). E poi vennero
White Light White Heat, Sweet Jane, sempre la droga, Lou Reed sempre più
cattivo, con gli occhiali scuri, non ti guarda, Lou, sei un pezzo di merda per
lui.
Poi corsi a sentirmi New York, Transformer, e gli altri suoi
grandi successi da solista, sempre uguale a se stesso, libero e solo e duro,
come un tavolo di legno sotto il sole. Intanto interi filoni musicali nascevano
ispirati dalla breve stagione dei Velvet. Io avevo nove anni quando è esploso
il punk rock, il che vuol dire che me lo sono dovuto ascoltare tutto dopo,
quando la festa era finita e le radio ci passavano gli Spandau Ballet. Disse
Brian Eno che il disco con la banana vendette solo 30mila copie, ma che ogni
ragazzo che lo sentì fondò una band musicale, lui compreso. Possibile. The most
influential album ever.
Ma io compresi chi era solo quando nel 1992 uscì il disco
che lui e l’amico ritrovato John Cale registrarono (Songs For Drella) in ricordo del loro mentore, Andy Warhol.
Nella musica sempre ineffabilmente ostile, le loro parole
raccontavano la loro vera storia, una lunga confessione mista a rabbia, rimorsi,
e ammirazione per quello che riconoscevano come un genio. Lou Reed, per la
prima e ultima volta in vita sua, commuove (Hello
Andy I guess I gotta go. I hope someway, somehow, you liked this little show).
Ieri comparavo tra di loro i ritagli elettronici dei
giornali online. Le foto di Lou a tutte le etá. Giovane bello e bastardo, poi
cupo, scuro come un sicario. Infine un paio di foto molto recenti, con gli
occhi piegati un po’ all’esterno, malinconici ma vispi, e le orecchie grandi,
da vecchietto. Giá la vedeva arrivare. Da giovane l’aveva presa in giro. Adesso
gli presenta il conto, ma Lou aveva giá pagato.
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