I schèi, in
dialetto Veneto, sono i soldi.
I schèi sono
l’unica ragione per cui il Veneto vuole ottenere maggiore indipendenza
dall’Italia. Non prendiamoci in giro con questioni culturali, usi, tradizioni e
costumi. Qui abbiamo un presidente di regione, Zaia, abbastanza furbo da far
balenare ai suoi concittadini l’idea di non contribuire più con le loro tasse
al benessere e ai bisogni di tutto il paese, ma solo al proprio. E a molti
l’idea piace. Fanno un referendum, e il 60% dei Veneti dice di sì. E certo,
perché no?
Perché no? Ecco
perché no.
Nel 1951, a
seguito dell’inondazione del Po, il Polesine allagato vide 180 mila dei suoi
abitanti rimanere senza casa. Praticamente metà della popolazione. Il processo
di ricostruzione e prosciugamento durò sei mesi, e alla fine, di questi
sfollati, 80 mila non fecero mai più ritorno nel sud del Veneto. Preferirono
rimanere nei luoghi che li avevano accolti e nei quali avevano potuto ricominciare
una vita.
La notizia
dell’alluvione fece il giro del mondo. Ci fu una gara di solidarietà che superò
la cortina di ferro. Arrivarono aiuti dai paesi occidentali e anche dall’Unione
Sovietica.
Gli aiuti
internazionali ammontarono in tutto a 5 miliardi di lire dell’epoca,
corrispondenti a circa 100 milioni di Euro odierni.
Se sembrano
pochi, teniamo conto che si trattava di una cifra intorno all’1.3% del prodotto
interno lordo dell’Italia del tempo.
Comunque furono
utilizzati e, con i soldi avanzati, fu eretta una scultura a ricordo in una
piazza di Rovigo, ribattezzata Piazza della Riconoscenza.
Altri tre
miliardi ce li mise lo stato Italiano per ripristinare gli argini nei mesi
successivi.
Lo stato italiano
inviò un commissario prefettizio, Giuseppe Brusasca, che riuscì a coordinare gli
sforzi di ricostruzione in una terra di grandi contrasti politici e sociali. Questo
eroe della Resistenza, che durante la guerra aveva salvato diverse famiglie
ebree dai rastrellamenti fascisti, riuscì a far completare la ricostruzione in
sei mesi, un’opera che si riteneva avrebbe richiesto almeno due anni.
E gli sfollati?
Furono accolti in tante regioni italiane. Molti si stabilirono nel triangolo
tra Milano, Torino e Genova. Arrivavano senza più niente. Molti a piedi nudi,
con i bambini per mano, possedevano solo quello che avevano addosso.
Molti mantennero
fieramente la loro identità e la loro lingua. Conoscevo personalmente signore
venete, trasferitesi ormai da oltre 40 anni in Lombardia e che parlavano ancora
soltanto il loro dialetto.
Ecco perché no.
Ma davvero il
Veneto di oggi ha dimenticato tutto questo? Hanno dimenticato che quando erano
disperati il resto del paese li ha tirati fuori dal fango? Oggi che capita che
i poveri non siamo più noi, allora basta solidarietà, guardiamo solo in casa
nostra, questo il ragionamento che fanno? Sembra di si.
E domani? Forse
un Veneto indipendente? Uno staterello chiuso e insignificante che i potentati
economici potrebbero mangiarsi in un sol boccone. Il contrario dell’Europa
Unita, ragionevolmente l’unico modo che avrà la civiltà occidentale per non
essere comprata dall’economia selvaggia della Cina o dell’America.
Purtroppo
dimenticare il passato prepara gli incubi del futuro.
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