Bisogna saper apprezzare i privilegi che ci vengono donati.
Io, personalmente, non avrei alcun motivo di essere a
Reykjavik, Islanda. L’Islanda in quanto luogo remoto ed estremo mi attira, ma
non abbastanza da venirci a fare le vacanze con tutta la famiglia. Quindi non
sono qui per diporto. Sono qui per lavoro. E anche questo è strano. Io, geologo
petrolifero, cosa ci faccio nell’unico paese al mondo che non ha bisogno di
petrolio (e non ne ha)?
Ci faccio perchè due anni fa, quando il mondo era diverso e
le compagnie petrolifere incassavano centoventi dollari per ogni barile di
petrolio che estraevano, annunciando orgogliosamente profitti miliardari, l’organizzazione
denominata SPWLA (Society of Petrophyisicists and Well Log Analysts), di cui
faccio parte, decise di organizzare qui la sua riunione annuale.
Soprattutto, presumo, per far contente le mogli al seguito
(essendo industria prettamente maschile, al seguito ci sono per lo più mogli,
nota statistica, non sessita), che ne avevano piene le scatole di meetings a
Houston, Tulsa, San Antonio o Lafayette. Luoghi troppo caldi, umidi, senza
appeal internazionale e pieni di consanguinei (poco ben visti) o messicani
(malissimo visti).
Tuttavia, dato che il sistema deve continuare a funzionare,
gli organizzatori dissero: va beh, sarà vero che non si guadagna più, ma ci
costa più lavoro spostare l’evento e quindi andiamo avanti e organizziamo il
nostro simposio annuale a Reykjavik, una delle città più care al mondo.
Ed è così che mi sono trovato su quest’isola fatta di lava,
ricoperta di muschio, con una pioggerelina che insiste sempre, e il sole che
non tramonta mai.
Chi l’avrebbe detto che, arrivato qui per scopi
geologico/petroliferi, avrei finito per partecipare a un momento di gioia
collettiva?
E quindi eccomi qui che in compagnia di un collega giunto
dall’Iran ci avviamo verso questa piccola collina vicina al centro della città
e al palazzo di vetro dell’Harpa. Andiamo a vedere l’ottavo di finale contro l’Inghilterra,
e ci siamo comprati le sciarpe blu e rosse dell’Islanda, che stonano sui nostri
abiti e sulle nostre cravatte. Ma gli Islandesi non si formalizzano e ci
accettano nella folla.
La partita è seguita con entusiasmo ordinato. Addirittura i
netturbini (per lo più giovani donne asiatiche) passano nella folla con sacchi
e cartoni per raccogliere bottiglie e quant’altro. Quando finalmente il trionfo
è sancito dal fischio arbitrale e da un urlo liberatorio, la gente sciama ridendo
e cantando di nuovo verso la città, liberando la collina e lasciandosi dietro
una scia di...erba pulita! Ma niente, neanche un pacchetto di sigarette
schiacciato.
Per tutta la “notte” questa gente così tranquilla si lascia
andare a momenti di gioia collettiva che abbiamo la fortuna di testimoniare.
Sconosciuti che si abbracciano per la strada. Le strade i giardinetti, i bar
pieni di gente che canta, molti sono piuttosto ciucchi a dire il vero, ma senza
un’ombra di aggressività. Anzi proprio senza ombre, in questa strana luce
ovattata, un tramonto che durerà ancora per settimane.
Partecipiamo della loro gioia sapendo che, per quanto
effimera, è probabilmente la più grossa festa collettiva mai vista nella storia
di questo paese. Come dicevo: bisogna saper apprezzare i privilegi che ci
vengono donati.
E poi ero in credito con l’Islanda. Cinque anni fa, uno dei
suoi vulcani/giacciai, l’Ejafiolljokull (si, mi ricordo il nome) spazzò i cieli
di tutta Europa, lasciandomi piantato a duemila chilometri da casa. Oggi mi ha
mostrato il suo lato più umano, e siamo pari.
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