E i runner in
discesa. E’ così. Ne ho avuto prova nuovamente anche oggi.
Sabato di Pasqua,
sfuggo alle richieste muliebri relative a improbabili commissioni e acquisti di
prodotti esotici (la paprika affumicata? E cosa te ne fai? Dove la vendono?
Devo andare fino in Costarica per trovarla?) e vado a correre.
Correre in
ambiente pedemontano non è come da noi, dove si sfreccia su piatte strade di
terra battuta circondati da placide risaie e salutati da aironi e cicogne che
si scostano con sonnolenza. Qui non ci sono tratti orizzontali; o si sale o si
scende, e i sette chilometri che mi sono prefisso di percorrere sono come una
serie di ripetute: per un tratto si muore, poi si risorge, poi si ri-muore,
eccetera.
Ho modo di osservare
quindi il comportamento dei ciclisti amatoriali che mi sfilano nei due sensi. E
mi accorgo appunto di questo fenomeno. Il ciclista in salita saluta
cordialmente l’atleta che corre, compagno di fatiche ginniche. In discesa
invece sfreccia impassibile, ieratico, nascosto dietro occhiali da sole
aerodinamici.
Il motivo è molto
chiaro. I ciclisti sono gente semplice.
Quando pedalano
in salita, spingendo rapporti medio-leggeri, non un mulinello da vergognarsi, diciamo
una cosa onesta, hanno il tempo di guardarsi intorno, mentre con lo sguardo cercano
la salvezza in cima al rilievo, la cresta oltre la quale la bici va da sola,
vedono noi corridori venirgli incontro, con passo lungo e baldanzoso,
riconoscono lo stesso sforzo, la stessa sopportazione della fatica che nobilita
e libera endorfine che poi, dopo la corsa o la pedalata, ci aiuteranno a godere
del riposo, dei dolorini, della sete di vini bianchi freschi.
E quindi
salutano, fratelli nel sudore, e noi li salutiamo indietro, orgogliosi di fare
parte della stessa schiatta, più lenti e più sudati: i fanti e la cavalleria
dello stesso esercito.
Ma i ciclisti in
discesa sono un’altra cosa. Essi vivono tutta la settimana aspettando di salire
sulla loro bicicletta, bloccati da lavori e pendolarismo, cosicché quando
finalmente montano su di essa, dopo rituale vestizione con maglietta
impietosamente aderente, calzoncini a mappamondo, caschetto, si fanno tutt’uno
con il mezzo, non distinguono più la propria capacità di spingere i pedali
dall’abilità che hanno i cuscinetti delle ruote di trasmettere il movimento
minimizzando l’attrito.
In discesa, la
velocità li inebria; il solo fatto di rimanere in sella, senza essere
disarcionati, con le due ruote che sfrecciano sull’asfalto, sfiorando un mondo
che sfugge all’indietro, li trasforma in cosmonauti lanciati verso il futuro
dell’umanità. E come possono tali creature semidivine abbassarsi a salutare un
lento e sofferente essere che arranca su per la salita che egli sta sorvolando
a velocità supersonica?
Noi che corriamo,
invece, salutiamo in discesa, perché siamo in grado di farlo. In salita,
tormentati da visioni mistiche, ripercorrendo le stazioni della via crucis, non
sempre si riesce, mentre nel delirio ringraziamo Veronica che viene a detergerci il
sudore, e scacciamo spugne imbevute di aceto.
Intanto, mentre i
ciclisti lanciati in discesa non salutano, io, il lento e sofferente essere di
cui sopra, ho stabilito in effetti un ritmo accettabile, che mi ha portato a
superare la parte difficile del percorso mantenendo un passo onorevole. Poi ho
affrontato l’ultima salita, già all’interno del paesino, sulle stradine di
pietra che si inerpicano fino alla casa, qui dove se il ciclista vuole salire
deve mettere piede a terra. Un passo dopo l’altro, senza cedere alla squallida volontà che mi dice: -dai molla, hai fatto abbastanza, l’ultimo pezzo ce lo
facciamo al passo. Ci vai te al passo, ci vai. Ecco il muretto, ecco il
cancello. Arrivo. Il mondo si ferma anche lui. Guardo l’orologio. Personal
best. Vai.
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