Uso questo blog per pensare. Lo uso per arrabbiarmi per le cose non giuste. Lo uso per condividere il mio pensiero con chi voglia farlo. Non ho altro che abbia senso mettere in comune. Gionata
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domenica 21 luglio 2019

Diario del runner imperfetto.


Dopo una corsa di circa 45 minuti, il runner imperfetto è piuttosto soddisfatto. Se poi il percorso ha dei dislivelli, egli è orgoglioso di averli affrontati, pur accorciando il passo ma mantenendo il ritmo della falcata, rallentando un pochino ma con serenità e senza affanno, conoscendo il potenziale e i limiti del proprio corpo.

Egli osserva l’orizzonte lontano con sguardo da imperatore: ebbene sì, mondo, ancora una volta ti ho piegato al mio volere. Ho dovuto sudare, ma ho corso su di te e ce l’ho fatta.

Si toglie gli occhiali da sole, che servono soprattutto per vedere meno il mondo intorno, soprattutto in salita, per non vedere la Madonna con l’azzurro manto, le mani aperte e gli occhi rivolti verso il cielo, che prega addolorata per la sofferenza del runner.

E’ fresco alla mattina, l’orario perfetto per correre. Le 7 e 30. Il runner imperfetto lo sa. E alla sera lo dichiara a tutti gli amici.

Sì, le 7 e 30, quella era l’ora prefissata. Poi alzarsi dal letto si è rivelato più complesso del previsto, e tra un traccheggio e un caffè alla fine sono le 9 meno un quarto, e l’estate ha già acceso i suoi forni. Il runner riesce nel suo intento, ma paga il pegno, la sua libbra di carne.

Però che goduria. Domani ancora. La via della perfezione è tutta in salita. Un ultimo sguardo alle montagne, prima di andare in doccia, poi lo sguardo scende verso le scarpe, per ringraziare i piedi che lo hanno condotto al traguardo…ma non li trova.

C’è una roba in mezzo.

E tu che cazzo ci fai lì? Chiede il runner imperfetto.

E la panza risponde, timidamente: “eh, sai, le colazioni tirolesi alla mattina…”

Il runner si incazza. “Ma come! E poi il trekking pomeridiano!

“Ma lo stinco con gli spaetzle in baita…”

 E allora le nuotate alla sera? Non contano niente? Cosa ci fai ancora lì, disgraziata!

La panza mormora come per scusarsi. “Due weizen…”.

Eeeeeh. E allora. Il runner è imperfetto. Ma anche il mondo non scherza.

domenica 16 aprile 2017

I ciclisti salutano solo in salita

E i runner in discesa. E’ così. Ne ho avuto prova nuovamente anche oggi.
Sabato di Pasqua, sfuggo alle richieste muliebri relative a improbabili commissioni e acquisti di prodotti esotici (la paprika affumicata? E cosa te ne fai? Dove la vendono? Devo andare fino in Costarica per trovarla?) e vado a correre.
Correre in ambiente pedemontano non è come da noi, dove si sfreccia su piatte strade di terra battuta circondati da placide risaie e salutati da aironi e cicogne che si scostano con sonnolenza. Qui non ci sono tratti orizzontali; o si sale o si scende, e i sette chilometri che mi sono prefisso di percorrere sono come una serie di ripetute: per un tratto si muore, poi si risorge, poi si ri-muore, eccetera.
Ho modo di osservare quindi il comportamento dei ciclisti amatoriali che mi sfilano nei due sensi. E mi accorgo appunto di questo fenomeno. Il ciclista in salita saluta cordialmente l’atleta che corre, compagno di fatiche ginniche. In discesa invece sfreccia impassibile, ieratico, nascosto dietro occhiali da sole aerodinamici.
Il motivo è molto chiaro. I ciclisti sono gente semplice.
Quando pedalano in salita, spingendo rapporti medio-leggeri, non un mulinello da vergognarsi, diciamo una cosa onesta, hanno il tempo di guardarsi intorno, mentre con lo sguardo cercano la salvezza in cima al rilievo, la cresta oltre la quale la bici va da sola, vedono noi corridori venirgli incontro, con passo lungo e baldanzoso, riconoscono lo stesso sforzo, la stessa sopportazione della fatica che nobilita e libera endorfine che poi, dopo la corsa o la pedalata, ci aiuteranno a godere del riposo, dei dolorini, della sete di vini bianchi freschi.
E quindi salutano, fratelli nel sudore, e noi li salutiamo indietro, orgogliosi di fare parte della stessa schiatta, più lenti e più sudati: i fanti e la cavalleria dello stesso esercito.
Ma i ciclisti in discesa sono un’altra cosa. Essi vivono tutta la settimana aspettando di salire sulla loro bicicletta, bloccati da lavori e pendolarismo, cosicché quando finalmente montano su di essa, dopo rituale vestizione con maglietta impietosamente aderente, calzoncini a mappamondo, caschetto, si fanno tutt’uno con il mezzo, non distinguono più la propria capacità di spingere i pedali dall’abilità che hanno i cuscinetti delle ruote di trasmettere il movimento minimizzando l’attrito.
In discesa, la velocità li inebria; il solo fatto di rimanere in sella, senza essere disarcionati, con le due ruote che sfrecciano sull’asfalto, sfiorando un mondo che sfugge all’indietro, li trasforma in cosmonauti lanciati verso il futuro dell’umanità. E come possono tali creature semidivine abbassarsi a salutare un lento e sofferente essere che arranca su per la salita che egli sta sorvolando a velocità supersonica?
Noi che corriamo, invece, salutiamo in discesa, perché siamo in grado di farlo. In salita, tormentati da visioni mistiche, ripercorrendo le stazioni della via crucis, non sempre si riesce, mentre nel delirio ringraziamo Veronica che viene a detergerci il sudore, e scacciamo spugne imbevute di aceto.
Intanto, mentre i ciclisti lanciati in discesa non salutano, io, il lento e sofferente essere di cui sopra, ho stabilito in effetti un ritmo accettabile, che mi ha portato a superare la parte difficile del percorso mantenendo un passo onorevole. Poi ho affrontato l’ultima salita, già all’interno del paesino, sulle stradine di pietra che si inerpicano fino alla casa, qui dove se il ciclista vuole salire deve mettere piede a terra. Un passo dopo l’altro, senza cedere alla squallida volontà che mi dice: -dai molla, hai fatto abbastanza, l’ultimo pezzo ce lo facciamo al passo. Ci vai te al passo, ci vai. Ecco il muretto, ecco il cancello. Arrivo. Il mondo si ferma anche lui. Guardo l’orologio. Personal best. Vai.