Uso questo blog per pensare. Lo uso per arrabbiarmi per le cose non giuste. Lo uso per condividere il mio pensiero con chi voglia farlo. Non ho altro che abbia senso mettere in comune. Gionata

martedì 22 gennaio 2019

L'orologio più grande


Per noi geologi il tempo si misura in un'altra maniera.

Non sono gli orologi, né i documenti antichi a scandire il passaggio del tempo geologico. Per misurare questo tempo profondo servono due cose. Prima un po’ di martellate, e poi un po’ di fisica nucleare.

Le martellate servono per rompere le rocce, guardare come sono fatte dentro, e capire quale roccia si è formata prima di un’altra. Si ottiene così un’idea del tempo relativa. Per esempio: questa roccia fatta di coralli pietrificati si è formata sopra a quest’altra, fatta di materiale vulcanico, e non il contrario.

Se si danno abbastanza martellate in giro per il mondo si può ottenere una scala del tempo relativa di tutte le rocce del mondo. E nei decenni, ci siamo arrivati, consumando tanti martelli.

Ma poi bisogna capire quanto sono vecchie veramente queste rocce. E qui bisogna telefonare ai fisici. Gli si dà un pezzo di roccia, con dentro i minerali giusti, e loro si chiudono in laboratorio. Non ci fanno entrare, perché hanno paura che rompiamo qualcosa.

Ma quando escono, con i numerini, si ottiene quello che vedete qui sotto. La carta Cronostratigrafica del mondo.

A parte i bei colori, questo è il più grande orologio del mondo, perché misura il tempo che è passato da quando esiste la terra. Gli strati più antichi, in basso a destra, in fucsia, hanno 4 miliardi e seicento milioni di anni. Non c’era vita, allora, e nemmeno aria respirabile. L’acqua sì, per fortuna. Da li, si sale verso il presente.

E noi dove siamo? In alto a sinistra, occupiamo il periodo Quaternario dell’era Cenozoica, e neanche tutto, siamo nella parte in giallino. Appena arrivati, si potrebbe dire. Abbiamo già fatto grossi danni, però, e se esisterà ancora vita intelligente sul pianeta tra qualche milione di anni, i geologi di allora vedranno le rocce di oggi e ci sarà una bella riga nera, fatta di fuliggine, scarti del petrolio e spazzatura, compressi.

E nella loro lingua sconosciuta commenteranno: lo vedi che coglioni che erano? Lo credo che si sono estinti.

mercoledì 2 gennaio 2019

La prima corsa dell’anno.



L’orgoglio avrebbe voluto piantare la bandierina sul 2019 già ieri, primo gennaio, e mi diceva di cambiarmi e andare a correre in campagna.

Fuori, un mondo grigio mi guardava esitante. Chiaramente l’anno non era veramente iniziato. Primo gennaio si, ma con calma. Riordinare casa dopo bagordi. Caffettino. Pisolo. Poi a sorpresa arriva un amico. Aiuta a sistemare, soprattutto a finire le bottiglie lasciate a metà della festa. Si piluccano gli avanzi. Si fa sera. Ciao la corsa. Quanti buoni propositi schiantati da quel che resta del Bollinger.

Ma oggi no, oggi è ufficiale. Giorno feriale per eccellenza, il 2 gennaio è sobrio, secco, solare. Si lavora, il 2 gennaio. Si fa colazione con un caffè nero, senza zucchero, si gira al largo da pandori panettoni, cremine varie, si aggira il vassoio dei gianduiotti, abbondantemente razziato dai figli nottetempo. E poi, se magari capita di uscire per qualche commissione, respirando l’atmosfera del pianeta, fredda e croccante, allora è chiaro. La giornata è stata ideata per correre.

Ma saranno due mesi, tra una cosa e l’altra. Ci vuole un quarto d’ora per trovare tutto l’occorrente (poco, invero: scarpe, calze, calzoncini, tshirt, teresina da vento, occhiali, timer, ma uno per ogni cantone della casa).

Tutto fatto. Partenza.

Sembra quasi di poter correre normalmente all’inizio, come se non avessi passato due mesi seduto, come se cene natalizie e festive non ci fossero state, laddove nella realtà è stata una sequela di pasti pantagruelici innaffiati in tutti i modi.

Ma poi mi cade l’occhio sulla mia ombra. E non corrisponde alla mia immagine mentale di un uomo che corre immerso nella natura. Sembra più il nonno di quell’uomo, che incede a fatica, bisognoso di soccorso. Decido di ignorare la realtà, che oggi tanto va di moda. Mi concentro su passo e respiro regolari. Guardo la campagna, mi piego al vento quanto basta, evito i punti in cui il ghiaccio della notte, con il sole del mattino ha sciolto la fanghiglia, creando superfici di scivolamento potenzialmente letali.
Non guardo il cronometro, che demoralizza la truppa. Proseguo nel sole, supero cascine, attraverso, con cautela, la statale, poi arrivo a salutare il mio vecchio amico, il Canale Cavour. Nelle sue acque una volta limpide ho imparato a nuotare. Nelle sue successive versioni, più putride, ho visto la mia prima carogna di animale. Ho gettato sassi che facevano fataflomp. Un’era fa. Oggi lo raggiungo e lo seguo, il passo rimane regolare, mi conduce verso casa.

Ci salutiamo, io e il canale, ma il mio passo si è fatto più leggero, ho rotto l’incantesimo, dal rospo zoppicante di prima per magia si è ora formato…un altro rospo, un po’ meno zoppicante. Allungando le falcate torno in città, sull’asfalto si va più veloci, si superano i giardini degli altri, si evitano i tombini mai perfettamente a filo con l’asfalto. Ed ecco lo schluss finale, rettilineo, su marciapiede di porfido. La mano corre per un automatismo al polso, per fermare il cronometro esattamente al passaggio sul traguardo. Oggi il tempo non conta, ma il dato va comunque archiviato, siamo uomini di scienza.

L’arrivo è di fronte all’agenzia di pompe funebri, che non si sa mai.

Non mi fermo, però. Vado avanti, camminando, ma a passo sostenuto. La bandiera è piantata. Il sole dell’avvenire brilla alto.

Eccomi, 2019.