Uso questo blog per pensare. Lo uso per arrabbiarmi per le cose non giuste. Lo uso per condividere il mio pensiero con chi voglia farlo. Non ho altro che abbia senso mettere in comune. Gionata

sabato 25 aprile 2020

La scienza ci può salvare? La scienza si può salvare? – terza e ultima parte

Parlare alle persone


Cosa deve fare la scienza “buona” ovvero non controllata da poteri esterni e rigorosa, per salvarci?

Fino ad oggi, la scienza, con tutte le sue conquiste, non ha ancora imparato a fare una cosa cruciale, ovvero parlare all’uomo. Raccontargli cosa ha scoperto, e come funziona il mondo.

Se in passato il sapere è stato privilegio delle élites, o leva politica e religiosa per controllare i sudditi, oggi è disponibile a tutti, e la sfida non è preservare questo sapere, ma diffonderlo. Ma non è facile da “tradurre”. Le persone non di scienza, faticano a capirne i concetti, che intanto diventano sempre più complessi. E altri, non scienziati, si prendono la briga di dare la spiegazione che sposa i loro interessi.

La scienza deve imparare quelle che oggi vengono chiamate soft skills (competenze “molli”). Che sono in fondo la capacità di comunicare in maniera positiva.

Sembra un concetto da medicina orientale e alternativa, ma è molto più semplice. Le hard skills (scienze “dure”) sono competenze che servono per esempio a un ingegnere per calcolare la quantità di sabbia e cemento che devono andare nei piloni di un ponte dell’autostrada. Le soft skills servono poi per spiegare al capomastro e al committente che sabbia e cemento vanno per forza messi in quelle quantità e di non cercare di risparmiare sui materiali perché poi è un macello. Se la discussione col capomastro finisce a urla e stracci che volano, il risultato non si ottiene. Tanto valeva sbagliare i calcoli, il risultato è lo stesso.

Allo stesso modo, grazie alle hard skills acquisite, un meteorologo può accorgersi che l’aumento degli eventi climatici estremi comporterà un incremento delle trombe d’aria nella sua contea del 500% nei prossimi 5 anni. Ma se non trova un modo intelligente di comunicarlo alla politica, affinché prenda precauzioni e azioni correttive, verrà prima scacciato come uccellaccio del malaugurio, e poi accusato, quando arriva l’uragano, di non saperlo prevedere correttamente (cosa che peraltro, ad oggi, non si può fare).
E’ fondamentale insegnare la comunicazione a chi fa scienza. E l’università italiana non è stata ferma, se ne sono accorti molto prima di me, e oggi quasi tutti i nostri atenei offrono corsi e master di divulgazione scientifica.


Ma evidentemente non basta: stretti nella morsa tra la ricchissima comunicazione commerciale della grande industria agro-chimico-farmaceutica (o militare) da una parte e la capillare diffusione di soluzioni alternative (alternative alla scienza, e quindi farlocche) urlate, con il loro network che impazza sui social, gli scienziati “normali” non hanno voce.

Il cittadino, nel nostro paese per esempio, per ottenere informazioni scientifiche chiare e di qualità, parte già con un handicap perché molti di noi non sanno l’inglese, e sono quindi tagliati fuori diciamo dal 90% delle fonti che potrebbero aiutare. Ci sono infatti famosi divulgatori scientifici di lingua inglese (Neil De Grasse Tyson, Brian Cox, e molti altri), ma anche alcuni autori comici come Douglas Adams, che hanno fatto divulgazione scientifica, spassosissima ma corretta. Ma non possiamo affidarci al solo, eroico, Alberto Angela, o ai festival del sapere organizzati da Wired, di alta qualità, ma che raggiungono un pubblico di nicchia.

Bisogna che altri scienziati, oltre a Angela (che è un paleontologo prima che personaggio televisivo), si sporchino le mani con la televisione e i mass media. Abbiamo bisogno di film, serie, spettacoli, in cui la scienza si mostra con il proprio fascino anche a chi di scienza non se ne intende, non ne parla il linguaggio tecnico, ma ha interesse a sapere le cose.

E va liberato il sapere contenuto nelle biblioteche, che NON è su internet, o se lo è, è presente in modo non attraente e difficile da ottenere. Eppure è lì che si trova, sedimentato, dentro i libri, che non sono come i post su Facebook, perché un libro per formarsi ha bisogno non solo di una persona con idee e conoscenze, ma di riletture, correzioni, investimenti, verifiche, c’è anche qui un processo che in qualche modo seleziona. E se poi il libro finisce in biblioteca, vuole dire che ha passato un’altra selezione e non era una cretinata puramente commerciale.

Come si fa a liberare il sapere? Come si fa a ridare valore di verità al metodo scientifico, e a spiegarlo a tutti, in modo che si capisca che senza la certificazione di tale processo, i ponti crollano, gli aerei cadono, e le medicine avvelenano?

Sono costretto a terminare con un punto di domanda. L’unica cosa certa è che chi fa scienza non può più permettersi di aspettare che qualcun altro spieghi il mondo ai cittadini al posto suo.

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